L’inizio del 2018 è stato segnato dalla polemica – a tratti surreale – intorno alla questione delle buste biodegradabili per frutta e verdura, distribuiti a pagamento nei supermercati per l’acquisto dei prodotti sfusi.
Bene, lo scorso 29 marzo il Consiglio di Stato, dietro richiesta del Ministero della Salute, si è espresso in merito alla questione, stabilendo la possibilità, per il consumatore, di utilizzare sacchetti riciclabili portati da casa.
Ma andiamo per gradi, e cerchiamo di fare chiarezza sulla questione delle buste biodegradabili per frutta e verdura, sulla normativa vigente, sugli effetti che essa ha provocato e sulle possibili soluzioni alternative.
Indice dei contenuti
- Buste biodegradabili per frutta e verdura: normativa vigente
- Cosa dice l’articolo 9-bis
- Buste biodegradabili: le ragioni della polemica
- Perché farli pagare?
- Buste biodegradabili: gli effetti negativi delle nuove norme
- Cosa ha detto il Consiglio di Stato
- Quali sono i problemi legati alla decisione del Consiglio di Stato
Buste biodegradabili per frutta e verdura: normativa vigente
Nell’estate del 2017 il Parlamento italiano ha approvato la Legge 3 agosto 2017, n. 123, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno.”, il cosiddetto Decreto Mezzogiorno.
Nonostante la legge non riguardasse la questione delle buste biodegradabili, il legislatore ha ritenuto utile inserire al suo interno una norma onde evitare una procedura di infrazione avviata dall’UE per il mancato recepimento delle direttive europee.
Bisogna ricordare, anche per sottolineare la piega alquanto ironica della situazione, che in tema di ambiente, e nello specifico nella riduzione dell’impiego di sacchetti di plastica da sostituire con buste biodegradabili il nostro Paese è sempre stato all’avanguardia, anticipando di anni gli altri componenti della comunità europea.
Ciò nonostante, a causa di ritardi burocratici, si è trovato ad affrontare una potenziale procedura d’infrazione.
Il decreto Mezzogiorno contiene, all’interno dell’articolo 9-bis, il recepimento della direttiva UE 2015/720 che, imponendo dal 1° gennaio l’uso esclusivo di plastica biodegradabile per i sacchettini “ultraleggeri”, ovvero quelli utilizzati per la pesatura di prodotti alimentari sfusi, come appunto frutta, verdura, e pane.
Cosa dice l’articolo 9-bis
Nel recepire la direttiva europea, l’art. 9-bis rimarca le motivazioni e gli obiettivi da perseguire con questa norma, ovvero la riduzione degli imballaggi non riciclabili per prevenirne l’impatto ambientale, sostituendo le buste di plastica con sacchetti ultraleggeri biodegradabili.
Nello specifico, l’articolo contiene anche delle informazioni sulla composizione delle buste, divise essenzialmente in TOT categorie:
- Buste di plastica, utilizzate per trasportare la merce dal punto vendita verso l’esterno, per le quali viene introdotto il divieto di commercializzazione;
- Buste di plastica in materiale leggero, dallo spessore inferiore ai 50 micron;
- Buste di plastica in materiale ultraleggero, dallo spessore inferiore ai 15 micron;
- Borse di plastica oxo-degradabili, composte da materie plastiche contenenti additivi che catalizzano la scomposizione della materia plastica in microframmenti;
- Borse di plastica biodegradabili e compostabili.
Per completezza d’informazioni, ti segnaliamo che 1 micron equivale a 0,001 mm.
Per la raccolta di prodotti alimentari sfusi, la legge impone l’impiego di buste biodegradabili e compostabili di spessore inferiore ai 15 micron.
Buste biodegradabili: le ragioni della polemica
Una norma che mira a ridurre il consumo di imballaggi di plastica non riciclabile, che crea enormi problemi ambientali – si pensi agli oceani pieni di plastica – avrebbe dovuto ricevere encomi, invece ha generato polemiche atroci.
La causa di questa polemica è tutta in questo passaggio dell’articolo 9-bis:
“Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”
L’obbligo per il commerciante di far pagare la busta biodegradabile per frutta e verdura è stata accolta con ferocia dall’opinione pubblica, creando un caso nazionale.
Bisogna ricordare che le uniche buste soggette a questa norma sono quelle biodegradabili, di spessore inferiore ai 15 micron, utilizzate per motivi di igiene, e solo per la raccolta di cibi sfusi, non deperibili e non umidi (ad esempio, la mozzarella, il pesce, i salumi, formaggi freschi, etc..).
Quindi, tutti gli altri imballaggi, ad esempio la busta del pane con la plastica forata, i sacchetti per trasportare la merce o gli imballaggi dei prodotti (carta oleata e simili) non sono interessati dalle nuove regole.
Perché farli pagare?
Per dare un valore ad un prodotto introdotto per motivi di igiene e per ridurre l’inquinamento. Pagando, il consumatore è portato a dargli una importanza maggiore rispetto a ciò che riceve gratuitamente.
In definitiva, si tratta di pochi centesimi di euro a sacchetto, a seconda delle condizioni di acquisto per il commerciante.
La polemica che ne è seguita ha avuto risvolti in alcuni casi avvilenti, in altri invece molto importanti e interessanti.
Ad esempio, numerosi impianti di compostaggio hanno invitato i cittadini a non utilizzare i sacchetti biodegradabili forniti per la frutta e la verdura come busta per la raccolta dei rifiuti organici, perché pare che non si degradi come dovrebbe.
Buste biodegradabili: gli effetti negativi delle nuove norme
Lo scorso 7 maggio 2018 l’ISMEA – l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare – ha rilasciato un comunicato fornendo i risultati di uno studio condotto sugli effetti dell’introduzione dell’obbligo di buste biodegradabili per frutta e verdura sfusa.
Come si legge nella nota dell’Istituto, si registra “una flessione delle quantità vendute di “sfuso” del 3,5% ( -7,8% la spesa) a fronte di un’impennata senza precedenti degli acquisti di ortofrutta fresca confezionata (+11% in volume e +6,5% la spesa)”.
Si tratta di una reazione al pagamento delle buste, ma che genera, di fatto, un danno maggiore per il consumatore il quale, pensando di risparmiare pochi centesimi del sacchetto, si ritrova ad acquistare frutta e verdura ad un costo medio più alto del 43%.
Cosa ha detto il Consiglio di Stato
Come accennato all’inizio, il Consiglio di Stato si è espresso sulla questione, stabilendo quanto segue:
Fermo restando il primario interesse alla tutela della sicurezza ed igiene degli alimenti, è possibile per i consumatori utilizzare nei soli reparti di vendita a libero servizio (frutta e verdura) sacchetti monouso nuovi dagli stessi acquistati al di fuori degli esercizi commerciali, conformi alla normativa sui materiali a contatto con gli alimenti, senza che gli operatori del settore alimentare possano impedire tale facoltà né l’utilizzo di contenitori alternativi alle buste in plastica, comunque idonei a contenere alimenti quale frutta e verdura, autonomamente reperiti dal consumatore; non può inoltre escludersi, alla luce della normativa vigente, che per talune tipologie di prodotto uno specifico contenitore non sia neppure necessario.
Quindi, il consumatore può utilizzare un sacchetto monouso per acquistare prodotti alimentari sfusi, evitando così di dover pagare quelli impiegati nel negozio. In alcuni casi, inoltre, è possibile non utilizzare nessuno specifico contenitore.
Il Consiglio di Stato, però, si spinge anche oltre, stabilendo che l’obiettivo da perseguire potrebbe essere raggiunto utilizzando sacchetti di materiale alternativo alla plastica, ad esempio di carta, meno inquinante.
Conclude stabilendo che
“ciascun esercizio commerciale sarà tenuto, secondo le modalità dallo stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della conformità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore, siano essi messi a disposizione dell’esercizio commerciale stesso, siano essi introdotti nei locali autonomamente dal consumatore. In quanto soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso, può vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a venire in contatto con gli alimenti.”
Quali sono i problemi legati alla decisione del Consiglio di Stato
La decisione del Consiglio di Stato potrà, probabilmente, far contenti i consumatori, crea alcuni problemi di fattibilità per i commercianti.
Come sottolinea Altroconsumo, le criticità sono due:
- I commercianti hanno l’obbligo di garantire l’igiene degli alimenti che escono dal punto vendita, ma non può garantire per la sterilità e la pulizia dei sacchetti utilizzati dai consumatori;
- Non è detto che il peso dei sacchetti utilizzati dai consumatori, in alternativa alle buste biodegradabili, sia lo stesso di quello tarato dalla bilancia impiegata nel punto vendita.
Insomma, il problema resta.