La spondilite anchilosante (SA) è una malattia infiammatoria di tipo cronico, le cui cause esatte non sono ancora del tutto conosciute, che interessa principalmente la parte centrale dello scheletro, in particolare la colonna vertebrale e le articolazioni del bacino (sacro-iliache), anche se l’infiammazione può estendersi ad altre articolazioni del corpo.
Questa condizione è la forma più comune di un gruppo di patologie reumatiche note come “spondiloartriti sieronegative”. Questo termine indica che, a differenza di altre malattie reumatiche, come l’artrite reumatoide, nei test di laboratorio non si riscontra la presenza del fattore reumatoide.
La classificazione medica più recente tende a usare definizioni più specifiche, come “spondiloartrite assiale radiografica” o “non radiografica”, in base alla presenza o meno di danni visibili alle radiografie.
Essendo una malattia infiammatoria sistemica, la spondilite anchilosante può interessare diverse parti dell’organismo. Il suo sintomo principale è un processo infiammatorio che, con il tempo, può causare rigidità e una significativa limitazione nei movimenti.
Nelle fasi più avanzate, la patologia può portare a una progressiva perdita di mobilità della colonna vertebrale, costringendo la persona in una postura curva. Nei casi più severi, le vertebre possono arrivare a fondersi tra loro, creando una struttura rigida nota come “colonna a canna di bambù” e compromettendo in modo serio le normali attività quotidiane, rendendo difficili anche gesti semplici come sollevare la testa.
Indice dei contenuti
- Quali sono le cause e i fattori di rischio
- Il ruolo della genetica: il fattore HLA-B27
- I fattori ambientali scatenanti
- Chi è più a rischio?
- Familiarità e patologie correlate
- Come si manifesta la spondilite anchilosante: sintomi e segni
- Il coinvolgimento delle altre articolazioni: entesiti e artriti periferiche
- Le manifestazioni extra-articolari
- Sintomi generali e impatto sulla qualità della vita
- Come si diagnostica la spondilite anchilosante?
- Criteri diagnostici internazionali: New York modificati e ASAS
- Criteri di New York modificati
- I criteri ASAS
- Come trattare la spondilite anchilosante
- Terapia non farmacologica
- Le terapie farmacologiche
- Quando è necessario l’intervento chirurgico?
- Domande Frequenti (FAQ)
Quali sono le cause e i fattori di rischio
Come accennato prima, le cause esatte della spondilite anchilosante non sono ancora del tutto chiare. Tuttavia, la ricerca scientifica concorda sul fatto che la malattia nasca da una complessa interazione tra fattori genetici ed elementi ambientali.
Vediamo quali sono i principali.
Il ruolo della genetica: il fattore HLA-B27
La predisposizione genetica gioca un ruolo centrale nello sviluppo di questa patologia. In particolare, è stata riscontrata una forte associazione con l’antigene HLA-B27, un marcatore genetico presente in oltre il 90% delle persone affette dalla malattia.
Si ritiene che questo gene possa alterare la risposta del sistema immunitario, portandolo a riconoscere erroneamente le articolazioni come una minaccia e a scatenare di conseguenza la reazione infiammatoria che caratterizza la patologia.
Sia chiaro, avere questo gene non significa sviluppare automaticamente la malattia, così come la sua assenza non la esclude. Basti pensare che nella popolazione generale italiana, l’HLA-B27 è presente in circa il 4% delle persone, ma solo una piccola parte di queste svilupperà la spondilite anchilosante.
I fattori ambientali scatenanti
Si ipotizza che in persone geneticamente predisposte, alcuni fattori esterni possano agire da “innesco” per la malattia.
Tra i principali sospettati troviamo:
- infezioni batteriche: anche se il meccanismo non è ancora del tutto definito, si pensa che alcune infezioni possano stimolare in modo anomalo e persistente il sistema immunitario;
- microbiota intestinale: un’alterazione dell’equilibrio della flora batterica intestinale sembra essere un fattore che contribuisce allo sviluppo delle manifestazioni;
- microtraumi: sollecitazioni meccaniche ripetute a livello delle articolazioni e della colonna vertebrale possono favorire l’infiammazione;
- stress cronico: condizioni di stress prolungato possono influire negativamente sul sistema immunitario, aumentando la suscettibilità alla malattia.
Chi è più a rischio?
Secondo le principali stime (Manuale MSD, ISS Salute), la malattia è circa tre volte più comune negli uomini, nei quali tende anche a manifestarsi in forme clinicamente più severe.
L’esordio avviene tipicamente in giovane età, tra i 20 e i 40 anni, con un picco intorno ai 26. È raro che i primi sintomi compaiano dopo i 45 anni. Nelle donne e nei bambini, l’infiammazione può iniziare più spesso dalle articolazioni periferiche (come ginocchia o caviglie) anziché dalla colonna.
La prevalenza varia nel mondo. In Italia è stimata intorno allo 0,37%, mentre raggiunge picchi del 2% in Nord America e nei paesi scandinavi. È invece considerata rara in Africa e Giappone.
Familiarità e patologie correlate
La spondilite anchilosante mostra una chiara tendenza a ricorrere all’interno della stessa famiglia. Il rischio di sviluppare la malattia è da 10 a 20 volte superiore per i parenti di primo grado di un paziente rispetto alla popolazione generale.
Inoltre, può manifestarsi in associazione con altre condizioni, tra cui:
- psoriasi;
- artrite reattiva, un’infiammazione articolare che segue un’infezione;
- malattie infiammatorie croniche intestinali, come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa.
Come si manifesta la spondilite anchilosante: sintomi e segni
La spondilite anchilosante si presenta con una vasta gamma di sintomi, la cui intensità e progressione possono variare notevolmente da persona a persona. Le manifestazioni principali interessano la colonna vertebrale, ma possono estendersi anche ad altre articolazioni e organi.
Il sintomo più comune e precoce, presente in circa il 75% dei casi, è un mal di schiena di tipo infiammatorio. A differenza del comune mal di schiena “meccanico”, questo dolore ha caratteristiche specifiche:
- insorge gradualmente, in modo profondo e spesso difficile da localizzare;
- si concentra inizialmente nella zona bassa della schiena e dei glutei, per poi estendersi verso l’alto;
- peggiora con il riposo, specialmente durante la notte, tanto da causare risvegli;
- migliora con il movimento e l’attività fisica;
- è accompagnato da una rigidità mattutina che può durare da 30 minuti a diverse ore.
Con il progredire della malattia, se non adeguatamente trattata, il dolore può estendersi alla zona dorsale e cervicale. L’infiammazione cronica può portare a una progressiva perdita di mobilità, costringendo la colonna vertebrale in una postura curva e rigida.
Come già indicato prima, nei casi più gravi, si può arrivare alla fusione completa delle vertebre, una condizione nota come “colonna a canna di bambù”, che limita severamente i movimenti e il campo visivo.
Il coinvolgimento delle altre articolazioni: entesiti e artriti periferiche
La malattia non si limita alla colonna vertebrale. Un altro segno distintivo è l’entesite, ovvero l’infiammazione dei punti in cui tendini e legamenti si inseriscono sull’osso. Questo processo causa dolore in punti specifici come il tallone (fascite plantare o tendinite achillea), le coste (causando un dolore al torace che peggiora con tosse o starnuti) e il bacino.
Possono inoltre verificarsi artriti periferiche, che coinvolgono poche articolazioni, spesso in modo asimmetrico, soprattutto quelle degli arti inferiori come anche, ginocchia e caviglie. Un’altra possibile manifestazione è la dattilite, un gonfiore doloroso che interessa un intero dito della mano o del piede, conferendogli un tipico aspetto “a salsicciotto”.
Le manifestazioni extra-articolari
Essendo una patologia sistemica, la spondilite anchilosante può interessare anche altri organi e apparati, tra cui i seguenti:
- occhi: la manifestazione extra-articolare più comune è l’uveite anteriore acuta, un’infiammazione dell’occhio che provoca dolore, arrossamento, fastidio alla luce (fotofobia) e visione offuscata. Se trattata tempestivamente, raramente causa danni permanenti alla vista;
- apparato cardiovascolare: con il passare degli anni possono comparire infiammazione dell’aorta, alterazioni del ritmo cardiaco (es. tachicardia) o pericardite;
- apparato gastrointestinale: vi è una forte associazione con le malattie infiammatorie croniche intestinali, come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa;
- polmoni: la ridotta mobilità della gabbia toracica può compromettere la capacità respiratoria. Più raramente, si possono sviluppare alterazioni del tessuto polmonare (fibrosi);
- complicazioni neurologiche: sebbene rare, possono verificarsi a causa della compressione dei nervi spinali o di fratture vertebrali.
Sintomi generali e impatto sulla qualità della vita
Oltre ai dolori specifici, molti pazienti convivono con sintomi sistemici che hanno un forte impatto sulla vita quotidiana.
Ad esempio, la stanchezza cronica è spesso un sintomo dominante e invalidante. Possono inoltre presentarsi inappetenza, perdita di peso e anemia, soprattutto nelle fasi di maggiore attività della malattia. Infine, l’infiammazione cronica può favorire l’insorgenza di osteoporosi, aumentando il rischio di fratture vertebrali.
Il decorso della malattia non è lineare, ma si caratterizza tipicamente per l’alternarsi di fasi di riacutizzazione dei sintomi e periodi di relativa calma o remissione.
Come si diagnostica la spondilite anchilosante?
La diagnosi della spondilite anchilosante è un processo articolato che richiede l’integrazione di diversi elementi, tra cui la valutazione dei sintomi, gli esami di laboratorio e, soprattutto, gli esami strumentali come la risonanza magnetica.
Spesso, purtroppo, la diagnosi arriva con un ritardo significativo, anche di 5-7 anni dall’insorgenza dei primi disturbi, perché vengono sottovalutati o associati ad altre condizioni.
Vediamo, quindi, come procedere per individuare la patologia in modo precoce e giungere a una diagnosi accurata.
Il percorso diagnostico inizia quasi sempre da un sospetto clinico, che sorge quando una persona, in genere un uomo giovane, presenta una serie di sintomi caratteristici già descritti prima.
Purtroppo, non esiste un esame del sangue specifico che possa, da solo, confermare la diagnosi. Tuttavia, alcuni test forniscono indizi preziosi:
- indici di infiammazione (VES e PCR): possono risultare elevati, ma non sempre. La loro normalità non esclude la malattia;
- fattore reumatoide e anticorpi anti-CCP: come spiegato nel paragrafo introduttivo, sono tipicamente negativi, motivo per cui la malattia rientra nel gruppo delle “spondiloartriti sieronegative”;
- test genetico HLA-B27: questo marcatore genetico è presente in oltre il 90% delle persone con spondilite anchilosante. Tuttavia, la sua presenza non è sinonimo di malattia (molte persone sane ne sono portatrici) e la sua assenza non la esclude del tutto. È un forte indicatore, ma non un test diagnostico definitivo.
Gli esami strumentali sono fondamentali per confermare il sospetto clinico. In particolare, il medico può prescrivere i seguenti:
- radiografia (RX): è l’esame tradizionale, utile per visualizzare i danni strutturali causati dall’infiammazione cronica, come l’erosione e la successiva fusione delle articolazioni (anchilosi). Nelle fasi avanzate, può mostrare il tipico aspetto della colonna a “canna di bambù”. Il suo principale limite è che queste alterazioni diventano visibili solo dopo anni dall’esordio dei sintomi, contribuendo al ritardo diagnostico;
- risonanza magnetica (RM): è l’esame chiave per una diagnosi precoce. A differenza della radiografia, è in grado di visualizzare l’infiammazione attiva nei tessuti (l’edema osseo) a livello delle articolazioni sacro-iliache e della colonna vertebrale. Questo permette di identificare la malattia nelle sue fasi iniziali, molto prima che si sviluppino danni permanenti.
Criteri diagnostici internazionali: New York modificati e ASAS
Per mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, i medici si avvalgono di specifici criteri classificativi internazionali. I due principali sono i criteri di New York modificati e i criteri ASAS.
Criteri di New York modificati
Per molto tempo i medici si sono basati su un sistema di valutazione noto come “criteri di New York modificati”, che combinano la valutazione dei sintomi del paziente con i risultati degli esami radiografici.
Perché la diagnosi sia confermata, è necessaria la presenza di almeno un sintomo clinico e di un riscontro radiologico specifico.
I criteri clinici includono almeno una delle seguenti manifestazioni:
- mal di schiena di tipo infiammatorio: un dolore alla parte bassa della schiena che dura da più di tre mesi, con la caratteristica di migliorare con il movimento e peggiorare con il riposo;
- limitata mobilità della colonna lombare: una ridotta capacità di movimento della zona bassa della schiena, sia nei piegamenti in avanti e indietro che in quelli laterali;
- ridotta espansione della gabbia toracica: una difficoltà della gabbia toracica a espandersi completamente durante una respirazione profonda, valutata secondo standard di riferimento per età e sesso.
Il criterio fondamentale è la presenza di sacroileite, ovvero un’infiammazione evidente alle radiografie delle articolazioni sacro-iliache (quelle che collegano la base della colonna vertebrale al bacino).
I radiologi valutano il grado di danno a queste articolazioni su una scala che va da 0 (normale) a IV (fusione completa o anchilosi). Secondo i criteri di New York, il riscontro radiologico è significativo quando il danno è evidente e interessa entrambe le articolazioni, oppure quando è di grado severo anche su un solo lato.

Il principale limite dei criteri di New York è che si basano su danni strutturali visibili alla radiografia convenzionale. Purtroppo, questi segni compaiono solo in una fase avanzata della malattia, spesso dopo mesi o addirittura anni dall’inizio dei sintomi.
Per superare questo ostacolo e consentire una diagnosi più precoce, oggi la pratica clinica si affida sempre più spesso alla risonanza magnetica (RM).
I criteri ASAS
Per superare i ritardi diagnostici associati ai metodi tradizionali, un gruppo internazionale di esperti (ASAS – Assessment of SpondyloArthritis international Society) ha sviluppato dei criteri specifici per identificare la spondilite anchilosante in una fase precoce, anche prima che i danni siano visibili sulle radiografie standard.
I criteri ASAS sono pensati per essere applicati a persone che presentano un dolore alla schiena da più di tre mesi e i cui sintomi sono iniziati prima dei 45 anni di età.
Per formulare la diagnosi, i medici possono seguire due percorsi principali, basati sulla combinazione di esami strumentali, test genetici e sintomi specifici.
La diagnosi viene confermata se il paziente presenta un’evidenza di sacroileite (infiammazione delle articolazioni sacro-iliache) visibile alla radiografia o, più precocemente, alla risonanza magnetica (RM), più almeno una delle “caratteristiche di spondiloartrite” elencate di seguito:
- dolore alla schiena di tipo infiammatorio;
- artrite;
- entesite;
- dattilite;
- uveite;
- psoriasi;
- malattia infiammatoria intestinale;
- familiarità per la spondilite anchilosante;
- presenza dell’antigene HLA-B27;
- valori elevati di Proteina C-reattiva (PCR) nel sangue;
- risposta positiva al trattamento con farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS).
In alternativa, la diagnosi viene posta se il paziente risulta positivo al test genetico HLA-B27 e almeno due “caratteristiche di spondiloartrite” separate.
La vera innovazione dei criteri ASAS risiede nella loro capacità di favorire una diagnosi precoce. A differenza dei criteri di New York, che si basano su danni strutturali visibili solo tardivamente alla radiografia, i criteri ASAS valorizzano l’uso della risonanza magnetica.
La RM, infatti, è in grado di rilevare l’infiammazione attiva (l’edema osseo) già dopo poche settimane o mesi dall’inizio dei sintomi. Questo permette di diagnosticare la malattia anni prima che si verifichino danni irreversibili, consentendo di iniziare tempestivamente le terapie e migliorare significativamente la prognosi e la qualità di vita del paziente.
Come trattare la spondilite anchilosante
La gestione della spondilite anchilosante richiede un approccio completo e multidisciplinare. L’obiettivo principale è intervenire il più presto possibile per controllare l’infiammazione, alleviare i sintomi, rallentare il danno alle articolazioni e preservare la qualità della vita, evitando deformità e invalidità permanenti.
In genere, il percorso di cura si basa sulla combinazione di terapie non farmacologiche e trattamenti farmacologici.
Terapia non farmacologica
Questo approccio è un pilastro del trattamento e accompagna il paziente in ogni fase della malattia.
Esso prevede:
- esercizio fisico e fisioterapia: sono essenziali per mantenere la mobilità e una postura corretta. Un programma di riabilitazione personalizzato, definito con un fisioterapista o un reumatologo, aiuta a rinforzare i muscoli che si oppongono alle deformità tipiche della malattia. Esercizi specifici, come la ginnastica respiratoria, sono importanti per preservare la capacità polmonare, mentre l’idroterapia (esercizi in acqua calda) facilita il movimento e rilassa i muscoli. Anche semplici abitudini, come leggere a pancia in giù appoggiati sui gomiti per estendere la schiena, contribuiscono a mantenere la flessibilità;
- educazione e stile di vita: comprendere la malattia è il primo passo per gestirla al meglio. Le associazioni di pazienti possono offrire un supporto prezioso. È fondamentale adottare uno stile di vita sano:
- smettere di fumare: il fumo è fortemente sconsigliato, poiché può peggiorare la funzione polmonare, già potenzialmente compromessa dalla malattia;
- controllare il peso e l’alimentazione: ridurre il rischio cardiovascolare è importante per la salute generale;
- adattare la postazione di lavoro: è utile creare un ambiente che permetta di muoversi e allungarsi regolarmente, evitando sforzi fisici eccessivi.
Le terapie farmacologiche
I farmaci vengono scelti in base alla gravità dei sintomi e al tipo di coinvolgimento articolare, ma le opzioni principali sono le seguenti:
- Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei (FANS): rappresentano il trattamento di prima linea per gestire dolore e rigidità. Esistono diverse tipologie, e la scelta dipende dalla risposta individuale. Vengono utilizzati alla dose minima efficace e, quando possibile, solo durante le fasi attive della malattia;
- farmaci per il dolore (analgesici): quando i FANS non sono sufficienti o non possono essere usati, si possono considerare analgesici come il paracetamolo o, per dolori più intensi, la codeina;
- corticosteroidi: il loro uso è limitato. Le infiltrazioni locali direttamente nell’articolazione o nel punto infiammato (entesite) possono essere molto efficaci. Al contrario, l’uso di corticosteroidi per via sistemica (in compresse) non è generalmente raccomandato per il trattamento della malattia assiale.
- farmaci antireumatici tradizionali (DMARDs): farmaci come il metotrexato si sono dimostrati inefficaci nel trattare i sintomi della colonna vertebrale. La sulfasalazina può avere un ruolo limitato solo nel controllo dell’artrite a livello delle articolazioni periferiche (es. ginocchia, caviglie);
- farmaci biologici e inibitori delle JAK: questi farmaci hanno rivoluzionato la cura della spondilite anchilosante attiva e non rispondente alle terapie convenzionali. Agiscono bloccando specifiche molecole responsabili dell’infiammazione. Le principali classi includono:
- Inibitori del TNF-alfa: sono molto efficaci nel ridurre dolore, rigidità e infiammazione sia a livello della colonna che delle altre articolazioni. Se usati precocemente, possono rallentare la progressione del danno;
- Inibitori dell’Interleuchina-17 (IL-17): rappresentano un’alternativa efficace, spesso utilizzata quando i farmaci anti-TNF non funzionano o non sono tollerati;
- Inibitori delle Janus Chinasi (JAK): sono farmaci somministrati per via orale che rappresentano un’ulteriore opzione terapeutica per i pazienti che non hanno risposto adeguatamente alle altre terapie.
Quando è necessario l’intervento chirurgico?
La chirurgia è riservata a casi specifici e non è una soluzione comune. Le principali opzioni sono le seguenti:
- protesi d’anca: viene presa in considerazione quando l’articolazione dell’anca è gravemente danneggiata, causando dolore severo e disabilità, per ripristinare il movimento e migliorare la qualità della vita;
- chirurgia della colonna vertebrale: si tratta di interventi complessi, come le osteotomie correttive per correggere gravi deformità posturali o le procedure di stabilizzazione in caso di fratture o instabilità vertebrale.
Il percorso di cura richiede un monitoraggio costante, che il medico personalizza in base all’evoluzione della malattia, combinando visite specialistiche, esami di laboratorio e controlli strumentali.
Domande Frequenti (FAQ)
La SA è una malattia infiammatoria cronica che colpisce principalmente la colonna vertebrale e le articolazioni sacro-iliache del bacino. Fa parte delle spondiloartriti sieronegative e può portare a rigidità e, in alcuni casi, alla fusione delle vertebre (“canna di bambù”). Può anche interessare articolazioni periferiche e inserzioni di tendini e legamenti.
La causa esatta della SA non è ancora nota. Si ritiene che sia dovuta a una combinazione di fattori genetici e ambientali. Un ruolo significativo è svolto dalla presenza del gene HLA-B27, riscontrato nell’80-95% dei pazienti.
Il sintomo più tipico è la lombalgia infiammatoria cronica, che migliora con il movimento e peggiora con il riposo, specialmente di notte e al mattino. Si associa a rigidità mattutina prolungata. Altri sintomi possono includere dolore gluteo alternante, entesiti (es. al tallone), artriti periferiche (anca, spalla, ginocchio), uveite (infiammazione oculare) e stanchezza.
La diagnosi si basa su sintomi clinici, esame obiettivo e indagini strumentali. Le radiografie convenzionali possono mostrare alterazioni (sacroileite, sindesmofiti) solitamente in fase avanzata. La risonanza magnetica (RM) è più efficace per una diagnosi precoce, rilevando l’infiammazione (edema osseo) anche prima delle alterazioni radiografiche. Esami del sangue (VES, PCR) possono indicare infiammazione, ma non sono diagnostici specifici.
Il trattamento è multidisciplinare e combina terapie non-farmacologiche e farmacologiche.
–FANS sono la prima linea per dolore e rigidità;
– esercizio fisico e fisioterapia sono fondamentali per mantenere la mobilità e la postura;
per i casi più gravi o resistenti, si usano farmaci biologici, come gli inibitori del TNF-alfa e gli inibitori di IL-17 (es. secukinumab, ixekizumab);
– la chirurgia è un’opzione in casi specifici di danno strutturale grave, come l’artroplastica d’anca o osteotomie spinali.
La prognosi varia da persona a persona. Con un trattamento corretto e precoce, la maggior parte dei pazienti può condurre una vita normale e produttiva con invalidità minima. Fattori come infiammazione persistente, coinvolgimento dell’anca, scarsa risposta ai FANS o problemi cardiaci/polmonari possono indicare un decorso più severo.